Non è uno sport. Non è un gioco. È un richiamo.

La Palla Eh! – o palla a 21 – non la scegli. È lei che sceglie te.
Ti prende da piccolo, quando ancora non sai bene cosa stai facendo, ma senti che c’è qualcosa di magico nell’aria. Cresci con lei, la respiri, la sogni. E ogni estate, quando il sole inizia a scaldare le pietre del borgo, sai che sta per tornare.

Io sono nato in uno dei sei paesi dove la Palla Eh! è più di una tradizione: è un’identità. Un piccolo borgo toscano, incastonato tra la Maremma e le colline metallifere, dove ogni luglio o agosto il tempo si ferma per tre giorni. Il paese si trasforma. Le strade si riempiono di voci, di risate, di profumi di salsicce alla brace e vino rosso. I bambini corrono, gli anziani osservano, i giovani si preparano. È festa, sì, ma è anche battaglia. E alla fine, qualcuno urla di gioia, qualcuno piange. Ma tutti, tutti, hanno vissuto qualcosa di unico.

La Palla Eh! unisce. Dai bimbi di tre anni alle nonne di novanta. Tutti tifano, tutti sperano, tutti vogliono che “la Bimba resti a casa”.
Già, “la Bimba”. Così chiamiamo la coppa. E quella frase:

“Forza bimbi, allenatevi che la Bimba deve rimanere a casa”

non è solo un incitamento. È un patto. Un giuramento. Quando giochi, non giochi per te. Giochi per il tuo paese, per chi ti guarda, per chi ti ha insegnato, per chi ha giocato prima di te.

Io ho passato estati intere, dai sei ai vent’anni, con la palla in mano e la terra sotto i piedi. Ogni pomeriggio, ogni sera, ogni momento libero. E ricordo gli anziani seduti sulle panchine, che ci osservavano, ci correggevano, ci spronavano. Non era solo tecnica. Era trasmissione di valori. Era amore.

La Palla Eh! è questo: un filo invisibile che lega generazioni, che trasforma un borgo in una famiglia, che ti insegna a vincere e a perdere, ma soprattutto a appartenere.
E quando, un giorno, sarai tu a guardare i bambini giocare, capirai che non hai mai smesso di far parte di qualcosa di più grande.